Mi accorgo di essermi forse dilungato un po' troppo e in effetti la curiosità ora sta prendendo il sopravvento: il nostro Alberto Gilardi, aka Zizza, ci ha gentilmente regalato il suo tempo e ha buttato giù di getto queste righe. Giuro, io non le ho lette, le pubblichiamo così, senza revisione o modifica alcuna, perché si andrebbe a perdere la spontaneità del tutto.
Buona lettura!
Maratona state of mind
Maratona. Maratona. Ma-ra-to-na.
Soltanto queste quattro sillabe hanno un bagaglio emotivo cosi imponente, che, quando si inizia anche solo a pensare di correla, è come se venissimo catapultati in un frullatore emotivo, che trita tutte le emozioni più viscerali. Il risultato è un frullato di ansia, paura, insicurezza, ma anche eccitazione, entusiasmo ed euforia.
E questo deve succedere ogni volta, pure alla centesima maratona.
Se venisse meno questo coinvolgimento emotivo allora ha poco senso sottoporre il nostro corpo a questo massacrante sforzo fisico.
Se il tutto viene sminuito, ci si limita ad una semplice corsa di 42 km in città, ad un contenuto da postare sui social, oppure ad una spunta nella lista di cose da fare prima di farci venire a prendere dalla station wagon di Mario.
Per correre una maratona bisogna sapersi emozionare.
Bisogna avere una parabola pronta a captare ogni sensazione che il nostro corpo ci invia, e se non siamo aperti a provare emozioni, tutto questo ci passa via indifferente. Brutta roba l’indifferenza.
Bisogna essere sensibili per cogliere queste percezioni, sentirle nella pancia, come un pugno che ci fa piegare in due dal male.
Il maratoneta è un masochista.
Si, perché bisogna accettare e godere della sofferenza fisica, del dolore. La posta in gioco è la nostra tenuta fisica, emotiva e mentale.
Aldo Rock insegna che ci si deve addentrare nella nostra “caverna del dolore”, se si corre al limite per lunghe distanze, è inevitabile.
Non è un luogo dove fuggire , ma serve per elevare le proprie capacità fisiche e mentali, serve agli atleti di endurance per temprare la resistenza.
Dalla sofferenza e dal dolore bisogna imparare a trarne il meglio, ed è allora che le avversità ci fanno bene, ci scuotono ai livelli più alti.
La caverna è da sempre simbolo di rinascita e iniziazione. Trasforma il dolore da limite a risorsa.
E’ il paradosso biblico valido ancora oggi, dove le tenebre diventeranno luce, e quella luce illuminerà la cosa più bella che tu possa mai immaginare al di fuori della caverna: le transenne ai bordi della strada sono gremite di persone che urlano, battono le mani e ti dicono che la tua sofferenza avrà presto una fine, quindi lo sguardo va oltre, a cercare quella dannata scritta “FINISH”. La brami. La desideri.
La desideri così tanto che quando la superi, blocchi il garmin, e allora ti quell’orgasmo che aspettavi da mesi. Viene alla mente ogni allenamento andato male, ogni uscita sotto l’acqua, i polmoni agognanti di ossigeno dopo l’ultima ripetuta.
Ci si allena fino a massacrare noi stessi per vivere ciò che si prova in quel momento. Per chi scrive è la soddisfazione di essere riuscito a portare a termine qualcosa nella vita, e a questa consapevolezza, puntualmente, ne consegue il pianto.
Un pianto copioso, quello di un vitello appena tagliato dal suo tralcio, perché non sono lacrime a bagnare il viso già fradicio di sudore, ma vera e propria linfa vitale che sgorga liberatoria, dopo tanta attesa.
Innamoratevi. Innamoratevi della corsa e correte una cazzo di Maratona.
Oggi più che mai: keep on running!
LC
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